Amici di FPDI, proverò a raccontarvi qualcosa di me e soprattutto della mia visione della fotografia attraverso questa auto intervista pubblicata

tempo fa in una rivista on line.

Operazione gagliarda e birichina che mi permette di calarmi in due ruoli reiterando, questa volta con parola scritta e per voi, i tanti soliloqui

intrattenuti con il mio alter ego fotografo.

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Il sentirsi prigionieri della propria anima e credere che una nuova vita si svegli ogni giorno è il saldo che il cuore riceve dalle proprie azioni. E’ il modo in cui vivi la tua fotografia?

La domanda è abbastanza densa, tanto da richiedere un’attenta lettura ed una sua scomposizione prima di rispondere a cuor leggero.

Mi si chiede dunque se io, in quanto fotografo, viva la fotografia come riflesso di un’intima dialettica tra l’anima che imprigiona se stessa ed il desiderio di rifuggire dal quotidiano e dalla routine per rinnovarsi e trovare costantemente nuovi stimoli.

C’è del vero in questo poiché riconosco come alcune mie foto possano prestarsi ad una lettura complessa e multilivello in cui è palese il senso di costrizione ed oppressione dal quale cerco di fuggire.

Ma la vera fuga per me, in quanto fotografo, non è lasciare una prigione materiale od una realtà condizionante. La vera fuga del mio io fotografico è quella che mi porta alla perenne, quasi spasmodica, ricerca della luce come mezzo espressivo, unita alla geometrica simmetria delle strutture e della semplicità nella complessità.

E’ una fuga dal piatto grigiore dell’uniformità omologata che mi porta ad esaltarmi di fronte alla ricerca della riproduzione di un bianco e nero con nel mezzo tutte le possibili sfumature di grigio!

Ogni giorno, in quanto nuovo e quindi pronto ad affrontare una novella epifania, una nuova rivelazione, può portare qualche novità sorprendente capace di riscattare l’ovvio ed il piatto.

Non sono un fotografo dalle facili emozioni propugnate con qualche "plug in" ad effetto. Sono alla ricerca della rivelazione di ciò che la Natura ed il quotidiano possono nascondere nelle pieghe della vita.

In tale senso voglio vivere la mia esperienza fotografica come l’espressione di una ricerca volta ad emozionarmi oltre la scorza di qualsiasi routine.  Le mie foto che considero meglio riuscite sono quasi sempre frutto di un’illuminazione! Per illuminazione intendo quella sensazione che anche  tutti voi avrete sperimentato quando, dopo il magico click, avete percepito che si sono verificate le giuste congiunture e circostanze per dare vita alla fotografia che stavamo cercando.

 

Credi che la sensibilità sia una dote fondamentale per un buon fotografo?

Un buon fotografo, inteso come colui che sa comunicare messaggi ed emozioni  non può, chiaramente, prescindere da una particolare sensibilità artistica ed umana.

In assenza si può essere comunque un buon esecutore di tecniche fotografiche ( mi capita spesso di sentirmi così quando rivedo certe mie foto), ottenendo ottimi risultati formali che saranno però freddi e sterili in misura proporzionale all’assenza d’ispirazione.

 

Cercare lo scatto ideale per te significa abbandonarsi all’istinto o all’abilità metodica di una previsualizzazione?

Uno scatto ideale compenetra entrambe le istanze. L’abbandono totale all’istinto può essere all’origine di uno scatto ideale quando questo è supportato da un adeguato substrato tecnico che si traduce, spesso e di fatto, in un’inconsapevole ricerca metodica della previsualizzazione.

Resta inteso che molti scatti i quali hanno fatto la storia della Fotografia, erano tutto fuorché premeditati. A tale proposito risulta decisamente illuminante il libro di Ansel Adams  “Examples – The Making of 40 photographs”, edito negli USA da Little Brown and Company e penso introvabile in Europa.

Non avrei mai detto, per esempio, che la genesi di un capolavoro quale “Moonrise” at  Hernandez , New Mexico 1941, fosse per ammissione stessa dell’autore una combinazione di  “serendipity and immediate technical recall”.

Quindi la combinazione di un evento fortuito (passavano là proprio mentre la luna nasceva), con l’assoluta padronanza tecnica sua e dello staff ha permesso l’origine di questo capolavoro assoluto.

Tutta la sessione improvvisata di scatto durò meno di dieci minuti perché il sole che illuminava le croci del cimitero di Hernandez stava tramontando e la luna già correva nel cielo.

Morale? Lo scatto ideale è quello che hai sempre sotto gli occhi … sarebbe imperdonabile non possedere la tecnica sufficiente per padroneggiarlo! E non occorre neppure essere Ansel Adams … ma un poco di tecnica occorre assolutamente averla ! 

 

 

Quindi, a questo punto, esiste lo scatto perfetto?

La domanda è provocatoria visto che la perfezione non appartiene ai manufatti del nostro mondo di bipedi senzienti. Tuttavia, se non stiamo troppo a filosofare sul termine perfezione (dal latino perficio – portare a compimento), possiamo dire che lo scatto perfetto, inteso come quello che porta a compimento una summa di idee ed istanze espressive, esiste per ciascun fotografo relativamente solo e quando egli raggiunge la magica sintesi fra idea, tecnica ed azione.

In ultima analisi lo scatto ideale è per me quello dove la tecnica appare quasi dimenticata, invisibile a chi guarda la foto, sublimata dal suo farsi vettore di emozioni allo stato puro ma pur sempre esiste ed è determinante!.

 

La fotografia in bianco e nero conserva ancor oggi il fascino delle origini. Da dove deriva la tua passione per il bianco e nero?

Il bianco e nero, oltre ad essere connaturato alla nascita della Fotografia, è legato ad essa più di quanto non lo sia stato il muto per il cinema. Prova ne è che a girare in tempi moderni un film muto si finisce con intitolarlo: “L’ultima follia di Mel Brooks” o lo si correda di una colonna sonora come nel  “Film Blu” di Kieslowsky.

Perciò il bianco e nero è anche un modo di denotare e sottolineare il distacco e l’astrazione, che allo stesso tempo si fa complicità, del fotografo con la realtà che lo circonda e che lui vorrebbe catturare.

La mia passione per il bianco e nero deriva dal fatto che esso, lungi dal rappresentare uno svilimento della realtà colorata, ne è al contrario una potente trasfigurazione e reinterpretazione.

A mio avviso le scene del genere definito “street”, riprese in bianco e nero, appaiono assai più convincenti e coinvolgenti perché fissano in una sorta di limbo atemporale la realtà, astraendola ed oserei dire depurandola dal dato cromatico.

Due titani della fotografia come Adams e Mapplethorpe ( ma se ne potrebbero citare tanti altri) dimostrano che si possono fotografare paesaggi e fiori in bianco e nero esaltandone il valore simbolico ed espressivo.

Tra i film più belli che io ricordi ci sono quelli “fotografati” per il regista Ingmar Bergman da Sven Nykvist. Non è certo un caso che si parli di direttori della fotografia anche per coloro che ritraggono in bianco e nero la realtà nel divenire del movimento.

 

Secondo te, quando il bianco e nero può o deve sostituire il colore?

Ogni foto merita di essere interpretata e pensata in vari modi prima di essere pubblicata e stampata. Ritengo che non ci sia una regola assoluta e che sia sempre, in ultima analisi, la sensibilità del fotografo a stabilire se l’efficacia della scena da ritrarre sia maggiore o minore in un linguaggio piuttosto che nell’altro.

Vi sono indubbiamente delle circostanze che sembrerebbero richiedere il colore… ma persino l’erba di Wimbledom può acquistare un che di magico in scala di grigi se si è sognato di fare l’ingresso nel tempio del tennis.

Certo, un’aurora boreale, un grappolo di fuochi d’artificio, una Ferrari di F1, hanno bisogno del colore in quanto esso è cifra espressiva imprescindibile per l’esatta decodifica dell’immagine.

E’ sempre e solo una scelta di linguaggi differenti che dipende da quali peculiarità della scena si vogliono mettere in evidenza.

 

 

Inseguire un sogno significa avere fiducia nelle proprie capacità. Esiste un fotografo a cui t’ispiri o di cui cerchi di seguirne la strada?

Mentalmente, come credo quasi tutti noi, ho dei modelli di riferimento. Questi sono per me la dimostrazione di come sia possibile ottenere e conseguire certi risultati attraverso il lavoro, l’affinamento tecnico e culturale.

Ritengo però sia impossibile seguire la “strada” tracciata e percorsa da altri fotografi se non in termini generali di ricerca di una cifra espressiva personale  facente appello ad analoghi mezzi, tecniche e modalità di trattamento della luce che altri maestri hanno tracciato ed indicato come “possibile”. Fra i tanti che ammiro Adams è colui che sento più vicino.

Detto ciò non c’è dubbio che per riuscire a comunicare qualcosa attraverso una forma di espressione artistica, si debba essere innanzi tutto convinti e consapevoli delle proprie potenzialità e difetti. Per poi saper andare oltre e giungere a quella vetta espressiva in cui si riesce a trascendere la propria singolarità veicolando un messaggio universalmente valido e riconosciuto. Ma io sono ancora molto distante da tutto ciò!

 

Il primo scatto rappresenta un momento della propria emotività che ogni fotografo cerca di conservare in sé. Perché il tuo primo scatto? Quando hai realizzato che non potevi vivere senza una fotocamera?

Il mio primo scatto serio e consapevole con una reflex lo conservo solo nella memoria … infatti non giunsi mai a vederlo! Ero davvero alle prime armi e nel bobinare la pellicola nella spirale della tank per il mio primo sviluppo m’impappinai senza rimedio. Alla fine, dopo tanto nervoso e tanto sudore, chiusi la tank con il film che praticamente veleggiava libero all’interno!

Fatalmente la pellicola a contatto con lo sviluppo s’incollò. Per giunta sbagliai pure i tempi e dosaggi. Fu insomma una disfatta su tutti i fronti. La cocente delusione però non uccise la mia nascente passione.

La stessa voglia di rendere visibile agli altri la mia “Weltanschauung”, mia motivazione primaria allo scatto, ha acceso la mia passione e la tenacia per andare avanti.

Posso dire che l’attimo esatto in cui realizzai un’indissolubile comunione di vita con la fotocamera e la Fotografia, fu proprio quando aprii la tank e contemplai il mio primo rullo: incollato e totalmente nero!

 

Ogni autore ha un suo rituale di lavoro. Esiste un aneddoto a cui ti senti più legato o che più rispecchia il tuo modus operandi?

Senza dubbio di aneddoti od episodi ce ne sarebbero tanti. Quello che vi racconto ora penso sia abbastanza istruttivo.

Qualche riga sopra ho parlato della sensazione che si prova quando, dopo lo scatto, si “sente” dentro se stessi di aver fatto una buona foto. Si potrebbe pensare perciò che io (come altri) abbia quel pizzico di presunzione e di infallibilità nel riconoscere la qualità di un mio scatto. I fatti dimostrano invece che non è così!

Ero di ritorno da un viaggio a Napoli per vedere la bellissima mostra allestita a Capodimonte sugli ultimi dipinti del Caravaggio, mio pittore “antico” preferito.

In treno feci diversi scatti. Nel mio intento avrebbero dovuto restituire uno spaccato della vita dei pendolari che sui treni spendono parte della loro giornata. C’era chi dormiva, chi leggeva, chi ascoltava musica … quasi nessuno parlava. Scattai senza molta convinzione e riguardando le foto nel misero visorino della 20D la sensazione di non aver combinato nulla di buono si fece ancor più forte. Decisi di non cancellare nulla in attesa di poter vedere i file sul monitor.

A distanza di giorni rividi gli scatti di quella giornata a Napoli e li trovai piuttosto piatti ed insignificanti. Gli scatti fatti sull’Intercity li cancellai tutti!

A mia insaputa, il mio  “archiviatore folle” che si occupa  della memorizzazione dei miei lavori, aveva già salvato copia dei file RAW.

Quando a distanza di mesi cercai uno spunto per partecipare ad uno concorso internazionale (il SuperTrienenberg Circuit), m’imbattei in quegli scatti dimenticati. Ne trovai uno particolarmente intrigante che sviluppai come al solito con Camera Raw.

Dal lavoro certosino che ne seguì ottenni un risultato insperato. Inviato il file all’ultimo giorno utile di partecipazione al concorso, mi valse alla fine un primo premio per la categoria monocromo digitale.

Morale: NON cancellate mai qualcosa che possa essere, anche solo lontanamente, uno spunto interessante. Metodologicamente ho imparato ad aspettare e rivedere i miei scatti, anche in fase di postproduzione, a mente fredda e con distacco emotivo.

Il web può rappresentare una valida piattaforma di lancio per fotografi alle prime esperienze? Come hai vissuto la tua esperienza sulla rete?

Come tanti ho ritrovato interesse a scattare con continuità con l’avvento del digitale. In realtà all’inizio non ero molto convinto, infatti ho tenuto duro fino al 2004. Poi, proprio l’iscrizione ad una comunità web di fotoamatori mi stimolò a cercare di capirne di più ed acquistai una Minolta 7Hi.

Questa esperienza di lancio rompighiaccio per transitare dall’analogico al digitale è stata resa possibile grazie al web che mi ha dischiuso le porte di un confronto virtuale a livello nazionale prima ed internazionale dopo, con altri fotografi. Per me, provinciale, che venivo dai circoli fotografici cagliaritani e che a Roma non avevo trovato alcun aggancio, fu una rivelazione!

Non so dire se il web possa essere una piattaforma di lancio per un giovane che voglia intraprendere la professione. Credo che la rete possa dare in ogni caso delle opportunità che ai miei tempi non c’erano. Velocità di scambio e condivisione d’informazioni, visibilità e contatti in tutto il mondo, sono aspetti assolutamente non trascurabili.

Posso perciò affermare che è anche grazie al web ed a Voi se ho potuto scrivere queste parole e conoscerci meglio.

Un saluto e buona luce a tutti.

Lodovico

 

 

 

 

 

   

 

 

 

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Risposte a questa discussione

Sei fuori di testa..... sarà colpa della febbre!!!!! Straordinaria idea Lodovico..... anche se ci siamo conosciuti di persona ho apprezzato.

divertente l'idea dell'auto intervista, molto interessante nei contenuti, con spunti e piccoli consigli da non sottovalutare. BRAVO LODOVICO!!

Ok !!!!!!!!

ottima idea 

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